Nella sua presentazione ricca di illustrazioni (foto d’epoca, dipinti, stampe, oggetti) Valeria ha rilevato l’evoluzione della canzone napoletana, dagli inizi mitologici fino ad oggigiorno.
Il canto insidioso delle sirene, resistito da Ulisse, culmina nella morte di una di esse, Partenope, che, buttatasi in mare viene ritrovata sulla costa al luogo Partenope, l’antico nome di Napoli.
Di origini antiche sono le tammurriate, canzoni che segnano il ritmo del lavoro fisico della semina dei raccolti. Dello stesso genere sono i canti propiziatori o di protesta delle lavandaie. Nel Duecento gli studenti dell’Università, fondata da Federico II, si servono di una lingua mista – latino, napoletano volgare, tedesco, arabo – per esprimersi in canto. L’amore è il tema delle serenate e mattinate che i ‘posteggiatori’ recitano nelle vie urbane. Nel Quattrocento l’amore ricorre nelle villanelle, recitate in napoletano. La danza frenetica della tarantella, specialmente la michelemmà, rispecchia lo sfondo delle incursioni saracene. Le canzoni vengono accompagnate da vari strumenti – il putipù, il mandolino, la chitarra, il tamburello.
L’opera lirica e la fondazione del Teatro San Carlo favoriscono una musica più colta, però la tradizionale canzone napoletana perdura negli intermezzi dell’opera buffa e ne Lo frate nnammurato del Pergolesi. Nell’Ottocento la festa di Piedigrotta, che dà spazio ai canti e ai balli, serve da vetrina pubblicitaria alla canzone napoletana, ad esempio con la tiratura di 180 mila ‘copielle’ di Te vojo bene assaye. La prima canzone napoletana d’autore Funiculì funiculà, lavoro di Salvatore di Giacomo e Peppino Turco, debutta pure a Piedigrotta. Nel Novecento un serio lavoro di recupero di canzoni cadute in disuso viene fatto da Roberto de Simone con La Gatta Cenerentola, una raccolta di famosi brani della tradizione canora napoletana.
Grazie Valeria di una serata affascinante che ha attestato la nota citazione ‘io sono di Napoli se non canto muoio’.